MARIO ALBERTO PROCACCIANTE
Gazzetta di Rozzano
Luglio-agosto 1985
Di quando in quando il nostro spirito civile si ribella alle notizie che le pagine di cronaca ci propongono. In estate però, con il caldo, anche le coscienze vanno in vacanza e così accade che non facciamo troppo caso a certi fatti che, invece, meriterebbero la nostra attenzione. Ciò è forse dovuto in buona parte al cosiddetto “effetto soglia”, e tuttavia la soglia del nostro sgomento e della nostra rabbia viene continuamente sospinta verso l’alto dall’abitudine a sentire cattive notizie. Scatta dunque un meccanismo di assuefazione in virtù del quale ci lasciamo coinvolgere soltanto da notizie sempre più spettacolari, quelle che fanno gridare a sensazione. Per questo motivo da più parti si leva l’indice accusatore verso i mass media.
In effetti, chi per mestiere scrive su di un giornale sa bene che tali accuse non sono del tutto ingiustificate, ma il mercato ha le sue regole ed anche il giornale è un prodotto che si deve vendere.
Tra le notizie lasciate in secondo piano in questi giorni ve ne è una che illustra abbastanza bene le contraddizioni cui, purtroppo, sono spesso soggetti i giornalisti.
Non molti giorni fa è morta a Roma Loredana Nimis: una delle due ragazze che alla metà di aprile sono state quasi arse vive alla borgata romana del Torrione. Qualcuno, ritenendole responsabili di alcuni furti in altre baracche, aveva deciso di farsi giustizia appiccando il fuoco alla baracca in cui le due giovani vivevano. “Atto di crudeltà” fu definito in quei giorni, “prodotto di miseria e sottocultura”. Ovviamente. II fatto occupò per diversi giorni spazi importanti sui giornali come pure alla radio e alla televisione. Tutti dichiaravano il loro orrore. Delle due ragazze si disse, tra l’altro, che erano tossicodipendenti, ma esse lo negarono.
Loredana fu quella che se la cavò peggio: gravi ustioni e più di un mese di prognosi. Pochi giorni dopo essere stata dimessa dall’ospedale, una “pera” le ha tolto per sempre qualsiasi problema. Qualcuno ha parlato di overdose, qualcun altro ha parlato di suicidio. Paola Carlini, la sua compagna in quell’episodio, lo esclude: Loredana aveva già fatto dei programmi per l’estate. E poi, “non era una tossicodipendente”. Comunque siano effettivamente andate le cose, adesso Loredana è morta e l’interesse della stampa per l’epilogo della sua storia è stato ben poco.
Ecco un altro esempio. Lo stesso giorno della morte di Loredana, i genitori di un giovane tossicodipendente si sono gettati insieme, abbracciati, dalla finestra del loro appartamento al quinto piano. Non sapevano più cosa fare per il loro figlio che già una volta era riuscito a uscire dal “giro” ma che aveva da poco ricominciato a “farsi”. Anche in questo caso, dopo il clamore iniziale, niente.
Certo non possiamo investire i giornali di un ruolo che non è il loro, non possiamo accusarli di causare la disaffezione del pubblico per i grandi problemi della società né di dare una soluzione a tali problemi. Ciò che, invece, possiamo aspettarci è che non ci permettano di abituarci a notizie come queste. Notizie che, purtroppo, vedono sempre spesso i giovani quali protagonisti. I giovani “generazione di sconvolti senza né santi né eroi: come canta Vasco Rossi, uno dei cantautori in giovani più si riconoscono. E forse, senza voler troppo insistere, Vasco Rossi, ha colto nel segno: la mancanza di modelli, di miti, se da un lato costituisce un elemento positivo, vitale, dei giovani, dall’altro è proprio il loro punto debole.
Orfani della storia
l giovani nati negli anni sessanta sono infatti un po’ orfani della storia: non hanno fatto la resistenza, non hanno vissuto gli anni del boom, non hanno fatto il sessantotto e, per fortuna, quasi nessuno di loro ha fatto il terrorismo. Hanno vissuto dunque gli anni della loro adolescenza in un clima di scarso coinvolgimento emotivo e, forse, è proprio su questo vuoto “ideale” che ha fatto presa la mala pianta della droga. Di chi è la colpa?
Per fortuna è finita l’epoca in cui la colpa ogni cosa era della società. Finalmente vengono recuperate le responsabilità individuali ed ognuno deve rispondere in prima persona delle proprie azioni. Certo però, anche in questo senso è opportuno non esagerare. Soprattutto perché il discorso sulle cause rischia di diventare bizantino e soffocare il giusto dibattito sui provvedimenti da prendere. Perché, quali ne siano state le cause, oggi abbiamo un problema da risolvere e presto. Il problema non è soltanto quello di limitare lo spaccio e l’assunzione di sostanze stupefacenti. Altrettanto importante è che i giovani – ne sono loro i principali consumatori – riescano a trovare in sé ragioni sufficienti per non bucarsi più.
Ciò presuppone che essi sviluppino una personalità ed una maturità tali per cui possano rendersi conto che esiste un modo di cambiare le cose diverso dal suicidio collettivo: la politica dello struzzo non risolve nulla.
Ecco allora delinearsi un ruolo per la società: assistente alla crescita spirituale. Società, comunque, non vuol dire necessariamente Stato, ma anche se l’epoca del welfarismo sembra ormai sul viale del tramonto, lo Stato ha ancora il suo compito in questa direzione, ed è un compito per niente secondario. Da esso infatti ci aspettiamo voglia proteggere oggi i suoi cittadini di domani. Suonerà retorico, ma non si può evitare di dirlo.
Vittime o colpevoli?
Mentre scrivo queste righe mi torna in mente Silvano, un mio compagno delle scuole medie. Silvano è stato ucciso poco più di un anno fa per questioni di droga. Mi spiace per i suoi genitori parlarne ancora, ma credo il farlo abbia un senso.
Perché è stata probabilmente l’esperienza più diretta che io abbia avuto con il “fenomeno droga”. Sicuramente quella che mi ha fatto capire più cose. Mi ricordo di lui come di un ragazzo dal comportamento un po’ contraddittorio, qualche volta un po’ difficile: un ragazzo che probabilmente cercava di mascherare la propria timidezza con l’aggressività. È un fatto piuttosto comune tra i ragazzi con molti problemi e troppo orgoglio per ammetterli. Dopo le medie non l’ho più frequentato ma l’ho visto spesso: stava con altri ragazzi come lui. Di solito, infatti, la socializzazione tra simili avviene con maggiore facilità: ci si copre a vicenda, tutti hanno qualcosa da perdere, nessuno ci perde troppo. Quando l’anno scorso ho saputo ciò che gli era successo ho cominciato a pensare a come sarebbero andate le cose se la nostra città avesse avuto qualcosa di diverso da proporre alle persone come lui.
Un cinema e delle palestre – questo c’era per i giovani – non sono assolutamente sufficienti a sopperire a ciò che spesso la famiglia non può dare. Purtroppo capita di frequente, per i motivi più disparati, che i genitori dei tossicodipendenti non riescano a soddisfare le esigenze di un adolescente. E ovvio che in questo caso debbono essere aiutati.
Non so se questo episodio sia da considerarsi paradigmatico o possa essere in qualche modo esemplificativo di una realtà che è molto più complessa e variegata di come ci farebbe comodo credere, resta il fatto che la società, ne sia responsabile o meno, deve farsi carico di questo problema.
La società deve, cioè, fare per se stessa ciò che ogni individuo farebbe per il proprio corpo in caso di malattia: curarsi. Ma come tutti i buoni medici sanno, la prevenzione è di gran lunga più efficace della cura. È necessario dunque prevenire l’insorgere della malattia, e nel caso di questa malattia la prevenzione può essere attuata aiutando i giovani a trovare dei solidi punti di riferimento ed una giusta risposta alle loro esigenze. E se è vero, come dicono certi economisti, che la società opulenta genera continuamente nuovi bisogni, quello della droga potrebbe non essere altro che l’espressione erronea di altre e ben più profonde esigenze. Tali esigenze, è ovvio, non sarebbero sentite esclusivamente dai giovani, ma proprio in loro assumerebbero quella dimensione critica che non potendo più non manifestarsi, lo fa nella maniera sbagliata.
Eviterei dunque una contrapposizione tra vittime e colpevoli. Per quanto riguarda la droga non credo che i giovani ne siano colpevoli. Vittime forse. Ma allora lo sono in quanto soggetti più deboli di una società che è vittima di se stessa, simboli e segni accidentali di certe contraddizioni non risolte che casualmente hanno determinato il fenomeno droga, ma che allo stesso modo avrebbero potuto concretizzarsi in qualsiasi altra forma.
Quando la coscienza va in vacanza – Post Scriptum
* Per “Quando la coscienza va in vacanza”, il 18 marzo 1986 ho ricevuto uno dei secondi premi della sesta edizione del Premio giornalistico “I giovani negli anni ottanta” bandito da Federico Motta Editore e avente come tema “I giovani e la droga, vittime o colpevoli?”.
A distanza di 35 rileggo questo articolo e mi rendo conto che le cose non sono migliorate. Il problema non riguarda più soltanto i più giovani e le dipendenze si sono moltiplicate. Provo a raccogliere qualche considerazione in un nuovo articolo.
Una risposta a “Quando la coscienza va in vacanza*”
[…] qualche soddisfazione e provo a capire quanto esso sia ancora attuale. L’articolo si intitola “Quando la coscienza va in vacanza” . Si occupa di droga e giovani. Erano gli anni ottanta e ci si domandava se i giovani fossero […]