Gli scrittori, in fondo, sono uomini con troppo pudore per dire quel che sentono. Allora lo fanno dire ai loro personaggi, così dicono, fingendo di non dire, mentre noi possiamo capire fingendo di non capire.
Un giorno ne incontrai uno che era andato fuori di testa. Mentre stavo per salire sull’autobus mi afferrò un braccio con una zampata. Non violenta, ma abbastanza decisa da non lasciarmi scampo.
Mi rassegnai a perdere l’autobus e gli diedi retta. “Lei lo sa cosa succede quando si perde la capacità di credere alla finzione della vita, quando non si riesce più a rimandare la domanda sul suo senso?”
“No – risposi io conciliante, ma determinato a non perdere un altro autobus – cosa succede? “
“Tutto perde di sapore, si smette di aver voglia di fare le cose perché si sa benissimo che quelle cose importano a noi soltanto, che tutti noi siamo soltanto una cacca di mosca nel gran libro dell’eternità. E quando ce ne andremo tutto andrà avanti comunque, senza grandi scosse. E dopo un po’… nessuno si ricorderà di noi e di chi siamo stati, di quale gusto di gelato ci piaceva e di che colore fosse la bicicletta dalla quale siamo caduti a cinque anni, sbucciandoci il ginocchio. Queste cose non le sa nessuno perché non sono importanti. Ce ne riempiamo la vita per ingannare la morte e distrarci mentre aspettiamo il nostro turno e la nostra lapide al cimitero. Anche quelli che godono come pazzi fanno quella fine, proprio come chi si è dannato a costruire una casa o a piantare un albero”.
“E sa come faccio a saperlo?” – continuò.
“È un filosofo!” azzardai io con una punta di sarcasmo.
“Macché filosofo – replicò quello – io lo so perché ne ho fatti vivere e morire a decine, nelle mie storie. E non uno che sia mai scampato a quella sorte”.
“Io scrivevo testi teatrali. Anzi: li raccoglievo, perché non inventavo proprio nulla. Mi guardavo intorno e le storie erano lì, già fatte. Aspettavano soltanto che io le mettessi su carta, che qualcuno le facesse incrociare e desse loro un senso. Ma il senso – mi creda – quelle vite ce l’avevano soltanto per il breve tempo di quell’incrociarsi e soltanto finché c’era qualcuno ad ascoltare una di quelle storie”
“Così ho smesso di scrivere, ma non mi sono rassegnato del tutto, ancora mi illudo di trovare la parola che risolva tutto, come nei cruciverba di Bartezzaghi.”
Poi l’autobus arrivò ed io vi salii. Mi voltai. Lo scrittore filosofo mi guardava, in piedi, dalla fermata, il palmo della mano destra fermo all’altezza viso a mo’ di saluto e un sorriso dolce sotto due occhi malinconici.