Nel 2020 sono morto

Giovanni Gastel Brenda per Dior Prova d'artista

Nel 2020 sono morto.  In un giorno imprecisato tra il 13 e 23 Marzo, all’ospedale San Carlo di Milano, sono morto. Senza riprendere conoscenza, ma in preda agli incubi. Sono morto senza la mia famiglia, perché ero in un reparto di infettivi e il mondo era avvolto nella pandemia e nella paura. Il mio funerale non c’è stato: come tutti quelli che sono morti insieme a me, sono stato cremato. Così la mia famiglia ha avuto un po’ più di tempo per pensare a dove far tumulare le mie ceneri.

Tra le cose che pensavo in stato di semi-incoscienza, c’era la vacuità, l’inutilità, di tutto ciò che avevo accumulato nella mia vita. Cose che non avevo goduto, esperienze che avevo rimandato e parole che non avevo detto. Se fossi tornato alla vita, come credevo possibile in quelle ore, non avrei sprecato più nulla.

Una mattina hanno telefonato a casa mia. Un dottore di quelli che mi assistevano in rianimazione, mentre le droghe rendevano possibile la ventilazione forzata dei miei polmoni, chiamò casa mia. Erano tutti lì, perché il lock-down aveva confinato tutti in casa. Io non lo sapevo, ma per strada c’erano soltanto le ambulanze e le macchine di chi non poteva a fare a meno di muoversi. La mia famiglia era in quarantena e non poteva uscire nemmeno per fare la spesa. Li aiutavano alcuni amici e una vicina di casa.

La notizia non c’era stato nemmeno bisogno di condividersela.

La faccia di mia moglie e il fatto che la telefonata  venisse dall’ospedale bastavano  a lasciar intendere cosa fosse successo. Nessuno aveva avuto il coraggio di domandare “come?” o “perché?”. Era bastato lo squillo del telefono, per rendere chiaro tutto.

Ora rimaneva da convivere con la mancanza e con l’improvvisa incombenza di tutto ciò che era improvvisamente diventato superfluo: i miei vestiti, la mia biancheria, i vestiti di mio padre e di mio suocero che io avevo ereditato senza il coraggio di disfarmene, come se insieme ai loro vestiti io ne avessi gettato via persino il ricordo. Ora ai miei figli sarebbe toccato di scegliere tra quelle cose qualcosa da tenere per fingere di tener vivo insieme all’oggetto anche il ricordo di me e di ciò che avevano sempre pensato di avere ancora il tempo di dirmi.

Li immagino increduli, insonni, a trarre dalle librerie i libri che avevo letto e quelli ancora incellofanati che avevo comprato per tacitare il mio desiderio di conoscenza, pur sapendo che la mia mancanza di disciplina mi avrebbe impedito per sempre di leggerli. Me li immagino ad aprire cassetti ed estrarne lettere ricevute da amori lontani e le bozze di quelle scritte da me in risposta. E poi scatole e astucci e cavi e computer e macchine fotografiche e accessori inutili a me e persino a loro.

Immagino il loro desiderio di gettare tutto sperando di gettare lontano persino il doloroso ricordo di quel che avrebbe potuto essere e non sarà più e immagino persino il loro senso di colpa, la loro incapacità di pensare che anche se prematuramente ero uscito dalle loro vite, io non ero in quegli oggetti e rinunciare a quegli oggetti non sarebbe stato un oltraggio, anzi: l’oltraggio vero, ma alla loro vita, sarebbe stato proprio trattenere quel che era mio e che aveva valore per me soltanto. 

Ma io l’avevo capito che tutta quella roba era inutile, io l’avevo capito che accumulare cose mi serviva soltanto a riempiere il vuoto che avevo dentro di me,  la paura di non essere abbastanza, di non valere nulla. Lo sapevo e avrei piano piano sgombrato tutto, me ne sarei disfatto, mi sarei finalmente sentito libero di essere quel che ero e basta. Avrei smesso di cercare di essere qualcosa di diverso, di meritarmi l’amore. L’amore non si merita. Si prova o non si prova. Ma ora non faccio più a tempo a dirlo a nessuno:  lo so io punto e basta. I miei figli e chi è rimasto dovranno impararlo da soli.

Mi dispiace di averli lasciati soli, ma non ho scelto io. Mi dispiace che perdano il papà per la seconda volta. Sono in gamba e ce la faranno. Ma forse penseranno che non erano pronti, forse penseranno che se fossi rimasto con loro più a lungo avrei potuto dar loro qualcosa di meglio. Ma non è così. Loro troveranno la loro strada. Forse con più tristezza di quel che serve, forse con un senso di colpa, forse si sentiranno in colpa ad essere felici anche senza di me, ma io spero che non siano così sciocchi.

Mi dispiace anche per mia moglie, che dovrà crescere da sola questi figli già cresciuti.

Milano, 1 gennaio 2021

Non è successo, ma avrebbe potuto succedere. È successo  qualche giorno fa, invece, ad una persona che conosco e la cui sensibilità straziata ho amato, un vero gentiluomo. Ha lasciato un vuoto enorme nella vita di molte persone. Per la prima volta ho trovato insensate le parole che mi hanno confortato tante volte: “Almeno abbiamo avuto la benedizione di averlo avuto”. Oggi quelle parole mi fanno rabbia perché il mondo e lui meriterebbero che lui fosse ancora qui. Se n’è andato il 13 marzo 2021, un anno giusto dopo i fatti che mi hanno ispirato le parole che ho scritto qui sopra. Sono un ben modesto omaggio, me ne rendo conto, ma questo è quello che posso. Grazie G.